www.mille-animali.com
C'è una tizia, nel gruppo nuovo. La peggiore tipologia umana che vi possa capitare: timida, psicorigida, perfezionista, chiusa come non so ché, le fai le domande e ti fissa come un coniglio nei fanali - non perché non capisce, ma perché non vede perché dovrebbe degnarsi di rispondere a te. Che non ti conosce. Che stai invadendo la sua privacy, anche se della sua esistenza faresti ben a meno di sapere.
Perché è sicuramente una roba da sonno, la sua esistenza.  

Forse perché - deficiente - sei in un corso di lingua, cara spugnadimare. Non a un corso di mimo, attività nella quale peraltro faresti comunque caghèr, temo. Quindi, diocristo, parla, se non con me, almeno coi tuoi compari.

Sempre a braccia conserte. Sempre. Non sorride mai. Non parla mai. Non ride mai.

Ha, come avrete intuito, la vitalità di una spugna di mare. 
Non fraintendetemi: non ho niente, io, contro i timidi. Niente. Ma ho tutto contro gli psicorigidi, i cafoni, gli antipatici e gli incazzosi. Lei è tutto questo.

Bene, oggi durante una pacata discussione di classe su un tema importantissimo (gli orari francamente sovietici dei supermercati di qui: apertura alle 7.00 del mattino, che chi non va a far la spesa alle 7, no? e chiusura tra le 6.30 alle 7, di sabato prima, per non parlare dei negozi normali che sono indecenti), questa Somma Testa Di Kadzo dal niente è esplosa strillando:

"NON CAPISCO DI COSA PARLATE PERCHE' SE UNO LAVORA IN UN UFFICIO  COME ME (ndr: è disoccupata. Viste le sue social skills la cosa non mi stupisce) FINISCE DI LAVORARE ALLE 4 E INSOMMA NON CAPISCO QUALE SIA IL VOSTRO PROBLEMAAAAAA AAAA AAAAAA"

Era fine lezione: esce sbattendo la porta. La studentessa bosniaca le dice mentre esce: buon per te, io in 20 anni di lavoro in Austria orari così non li ho mai avuti! Ma che dici??? Dice ormai A. alla porta.

Io e il resto della classe: allibiti.

Proprio stamattina l'avevo vista arrivare con la metro e avevo pensato: detesto ammetterlo con me stessa, ma mi sta proprio sulle palle, questa. E' una di quelle persone che passano tutto il loro tempo libero in giardino da sole perché gli altri esseri umani bah che schifo, è acidissima, non è curiosa di assolutamente nulla. E' detestabile. Dopo oggi è sulla mia lista nera - e non mi stupisce che gli altri studenti non vogliano mai far coppia con lei.

Questo gruppo è carino, ma nel mezzo ci sono due o tre rognosi. Un'altra uscita di sto tipo e la metto giù dura: della serie, il primo che alza la voce per le stronzate di cui parliamo, perché mica si parla del credit crunch in un corso elementare dyobonoporcatroia, lo mando fuori a calci NEL CULO. Sonori.

E vabbè che sono buona e cara. Ma mica mi possono sempre piacere tutti. Specie le spugne di mare acide come lo yogurt andato a male. 
Pussa via!
lonelyplanet.com
Canzoni di Carlos Gardel sui muri dei palazzi. Che sono coloratissimi. Bello bello bello. 
Hungarian Foreign Minister Gyula Horn (r) with Austrian counterpart Alois Mock cut through barbed wire of former Iron Curtain marking border between East, West in Sopron, Hungary, 27 Jun 1989
Impressioni magiare scribacchiate sul retro del biglietto dell'autobus. Elaboro qui, prima di dimenticarmene, cosa che succede piuttosto facilmente, come sapete. 
Sono nata nel 1982, e sono cresciuta in casa di un uomo che si occupava tanto di politica, che ne parlava anche davanti a me, e che viaggiava, anche, talvolta, per la politica. Quando avevo sette anni circa, mio padre è andato in Bulgaria, e quando era tornato, ero curiosissima. Tra i suoi amici aveva un musicista bulgaro scappato da lì, e io qualche volta giocavo con suo figlio, che aveva la mia età. Suo padre aveva sempre l'aria un po' triste, parlava piano, era un tipo molto diverso da mio padre.

Ho sempre provato curiosità per l'Europa orientale, e la prima volta che ci sono andata, coi miei genitori, avevo 17 anni, quindi era il 1999. Avevo 17 anni e la testa strapiena di cose lette sui libri di storia su questa Europa così vicina geograficamente, ma così lontana per tutto il resto. Avevo anche avuto un po' di compagni di scuola dell'Altro Blocco, albanesi, bulgari, romeni, polacchi, e spesso avevano storie di vita difficili, alle spalle. 

Insomma, a Vienna, la sera prima di andare in Ungheria, ero emozionata come una scema. Perché passavo questa linea ormai inesistente, che aveva fatto la Storia, e che aveva fatto sì che gente della mia età crescesse in modo totalmente diverso da me. 

Passata la frontiera, la campagna non era spettacolare. Sembra la pianura coi pioppeti intorno a Milano, è molto simile - la puszta, la grande pianura coi "butteri" ungheresi, sta ad est, ma io non lo sapevo, e mi aspettavo roba diversa.
La prima città ungherese che ho visitato è stata Győr, un posto piccolo, tranquillo. Ho dormito in un ex-monastero rinnovato per essere un albergo, e ho pensato un sacco, ho scritto un sacco nel mio diario (cartaceo) che tenevo. Il giorno dopo siamo arrivati a Budapest, la prima capitale a est della cortina di ferro che ho visitato. All'epoca l'avevo trovata triste, grigiotta, non mi era piaciuta, e sono stata contenta di tornare a Vienna, qualche giorno dopo. 
Due anni dopo ho visitato Praga, che all'epoca era più tranquilla di ora, e mi era piaciuta molto, molto più di Budapest - ora è il contrario, Praga è sputtanata, affollata di turisti anche a novembre e eccessivamente fighetta, per i miei gusti. 

Insomma, la scorsa settimana, mentre stavo lì seduta in un caffè ultramoderno, di fianco al museo nazionale, ad aspettare P, guardavo le persone e pensavo a quanto è cambiata Budapest, e con lei l'Europa orientale tutta, negli ultimi dieci anni (figuriamoci in venti, ma lo so solo a livello teorico.) 

Per gli sbarbati come quelli a cui insegno è un posto anche piuttosto cool e alternativo, con i famosi kert e lo Sziget Festival, per i miei genitori invece era un posto da cui arrivavano i rifugiati politici. Per me è un posto dove andare a fare il weekend, a trovare l'amico francese che lavora (legalmente) in Ungheria senza problemi, e ci vado senza che neanche mi controllino il passaporto. Queste piccole cose sono quelle che a) ti fanno sentire che la storia non è una baggianata, ma qualcosa che ti succede intorno e b) che non sei più una mocciosa, anche se ti ritieni tale. C'hai dei ricordi che agli studenti tuoi sembrano roba d'antiquariato.

Le tracce della cortina di ferro sono invisibili, ma ci sono ancora. L'Austria era terra di confine tra due mondi, e si vede. Ancora adesso, per andare a Praga, fino al confine non c'è un'autostrada, e ci metti un bel po'. Le stazioni di frontiera sono minuscole, perché non c'era scambio - era un binario morto, e questo si può notare tuttora. La regione al confine ungherese, il Burgenland, e quella al confine slovacco, il Marchfeld, sono zone depresse economicamente, che per anni hanno risentito del loro essere liminali. E' interessante il fatto che non se ne siano ancora riprese nonostante faccian parte di un paese prosperoso - e quindi non mi sorprende affatto che l'Ungheria e molti stati dell'ex blocco sovietico siano messi così così. 

Certe volte, quando viaggio da sola, penso un sacco. Meno male che di solito c'è l'Asburgico a distrarmi. Comunque, se vi interessa sapere com'era l'Ungheria pre-1991, leggete questo romanzo di Tibor Fischer. L'originale è in inglese, è divertentissimo, nel suo malinconico stile magiaro. Buona lettura!
Ho letto un post, qualche giorno fa, della Smila, che sta a Manchester e ha trovato lavoro in un ufficio, ora. Robe con la malattia pagata e quelle cose scic lì, mica cazzi! Insomma, la Smila, che è una donna di un certo livello, ha scritto questo post dopo aver visto in quanti arrivano al suo blog scrivendo "andare via dall'Italia." 
Da me arrivano scrivendo cose porno o cose emo tipo "ci vediamo in un'altra vita", da lei arrivano con la progettualità di cambiare la vita.
Vorrà dir qualcosa, orbene. 
Mi ha fatto pensare molto, e quindi le ho chiesto se potevo citarla e usarlo qui come mio primo ghestpost (o guest post, se siete avanti.) Lascio la parola a lei:

Questo post me l’avete praticamente strappato dalla penna. Tutti voi (tanti, cazz!) che ogni giorno iniziate la vostra emigrazione cercando su google “andare via dall’Italia”. E arrivate qua e incominciate a farvi un’idea di quello che possa voler dire farla veramente, quella cosa che vi viene in mente a ogni visione di TG, a ogni curriculum senza risposta, a ogni nuova tassa sulle mutande a pois, a ogni De Gennaro nominato sottosegretario.

Questo post ve lo scrivo in una giornata qualunque fuori dall’Italia e fuori dall’Euro, durante una tipica pioggia battente tra i raggi del sole. Durante una pioggia forte e duratura che non è un acquazzone estivo, non anticipa nessuna bella giornata e non porterà nemmeno l’arcobaleno. Alzerà vagamente le temperature, portandole a mala pena sopra la soglia del numero a due cifre.

Scrivo oggi – in una pessima giornata grigia e senza aprire i giornali italiani online – nel tentativo di essere razionale. Ché se per puro caso oggi qua ci fosse il sole o stessi leggendo uno di quei titoli dei nostri giornali mainstream (schifosi in forma e contenuti), questo post reciterebbe più o meno così: “sì, dobbiamo andarcene tutti dall’Italia”.

Quando sono partita per Manchester la sensazione era di aver preso una decisione molto importante in un tempo molto piccolo. Pensavo di aver fatto le valigie in quattro e quattr’otto senza essere stata a rifletterci troppo. Pensavo che la mia partenza fosse stata una diretta derivazione di pochi fattori che si erano sistemati in modo da tracciare una via irrinunciabile: perdita del lavoro, trasloco inevitabile, S. direzionato verso Manchester.

E invece non era così. Quelli sono stati solo gli episodi scatenanti. Latente, da molti anni oramai, c’era la consapevolezza di non stare bene, di aver bisogno di cambiare aria e soprattutto di smettere di vivere l’umiliazione quotidiana di lavorare in Italia, con una paga che non era uno stipendio, senza ferie, senza permessi, senza malattia, senza orari stabiliti, senza poter mettere da parte un soldo. La mia non-carriera italiana, fatta di lavori che mi piacevano molto e non pagavano e lavori che non mi piacevano e pagavano poco, fatta di giorni liberi dal primo lavoro per andare a fare il secondo, serate passate a lavorare da casa a cose interessanti e giornate passate in ufficio con gente meschina e approfittatrice, mi aveva stancato. Era chiaro che “fare gavetta” era una frase vuota. Perché quando esperienza, responsabilità e competenze aumentano mentre lo stipendio e i diritti diminuiscono, quello non si chiama gavetta, ma sopraffazione.
Allora mi sono trovata all’improvviso in un’altra nazione. Con l’entusiasmo e la paura delle cose nuove, quelle grandi, che cambiano la storia della tua vita.
Vivere fuori dall’Italia vuol dire accorgersi, con imbarazzo, di provare stupore per cose che dovrebbero essere la norma ma da noi non esistono: il tuo capo che ti dice grazie, un lavoro a tempo intedeterminato, il tuo stipendio che cresce ogni 3 o 6 mesi, assieme alla tua esperienza. E poi la possibilità di affittare una casa vera, intera, solo per te, anche se fai un lavoro umile, l’autobus che passa all’ora stabilita, le visite mediche con l’interprete nel caso tu non sia ancora pratico con la lingua. I figli di ragazze giovani, nati perché essere incinta non vuol dire anche essere licenziata. Le serate che iniziano alle 6.30 perché 8 ore di lavoro sono abbastanza e nessuno viene insultato per essere uscito dall’ufficio all’orario stabilito dal suo contratto. Essere considerato adulto e non ragazzo a 30 anni, con tutte le responsabilità del caso.
Vivere fuori dall’Italia è vedere una televisione che oltre alle scemenze presenta anche programmi interessanti, é vedere i film nella loro lingua originale. E’ ascoltare la gente comune fare domande a politici che rispondono per davvero. E’ ritrovare una dignità di persona e lavoratore che da noi non esiste più.
Vivere fuori dall’Italia vuol dire anche essere lo straniero: immergersi in una cultura nuova e sconosciuta, non capire le battute nazionalpopolari e non conoscere i personaggi famosi, sperimentare la guerra tra un cervello che pensa con la sua cultura e una bocca che parla una nuova lingua. Vuol dire sentirsi rispondere “è per questo che l’Italia è fallita” ogni volta che commenti il prezzo esagerato dell’insalata, vuol dire comprare i pomodorini a decine anziché a chili, rinunciare al pane vero.
Vivere fuori dall’Italia vuol dire essersene andato e cioè stare lontano: da quegli amici cui non devi raccontare il passato perché l’hanno vissuto con te, dalla famiglia, dal tuo locale preferito, dal profumo della peperonata al giovedì e della pasta col sugo avanzato il giorno dopo. Vuol dire dover rendere tua un’altra casa, senza i mobili di sempre e lo specchio nel quale ti vedi più magra. Vuol dire litigare col tuo fidanzato e non poter sbattergli la porta in faccia per andare a parlar male di lui con la tua amica. Vuol dire non esserci quando succedono le cose importanti a quelli che conosci e aspettare di essere tutti connessi a skype per dirsi le novità. Dover andare al matrimonio con un vestito inglese, cercando quello che sembri meno inglese possibile. Tenere sotto controllo quotidiano le offerte delle compagnie aeree.
Vuol dire provare frustrazione al ventesimo giorno di pioggia, a maggio, quando il tuo corpo è pronto alle maniche corte ma fuori ci sono 11°. Vuol dire cominciare nuove relazioni, conoscere nuovi locali e nuovi indirizzi, con tutta l’eccitazione dei primi mesi e la stanchezza dei mesi successivi. Vuol dire nostalgia costante, più o meno intensa, ma presente, come compagnia fissa.
Vivere fuori dall’Italia vuol dire sapere cosa succede in patria dai giornali e dagli amici, senza vivere in prima persona lo spirito del tempo e senza contribuire in nessun modo. Vuol dire vedere il tuo paese che continua la sua caduta e sentirti vigliacco ed egoista per non aver provato a metterci del tuo.
E poi vuol dire molte altre cose: divertenti, estenuanti, piacevoli o insopportabili. Vuol dire diventare più ricchi di esperienze e più poveri di relazioni, più forti per alcuni versi e più deboli per altri. E mille altri contrasti e sensazioni difficili o facili da vivere a seconda del tuo umore o del clima o dell’avvicinarsi del tuo prossimo rientro in patria.

Insomma non è facile. Ma nemmeno così difficile. Si fa, lo possono fare tutti. Secondo me quello che ci vuole più di tutto è non programmare troppo in là, procedere un po’ per giorno. E vedere come va.

Ecco. A me è piaciuto molto, questo post della Smila, che è un po' più "indietro" di me a livello di tempo, nel suo essere parte di quel fantomatico mondo che è quello degli italiani all'estero, che è una realtà che include di tutto. 


Sono d'accordo con lei su un sacco di cose, escludendo il pane, che in Asburgica è buonissimo, e le esperienze passate, che naturalmente sono diverse. Io in Italia ho lavorato pochissimo - sono partita per la Turchia due settimane dopo la laurea, e da che non sono più studente in Italia ci ho passato solo sette mesi circa, da lavoratrice, e comunque in un settore che non fa testo, quello dell'insegnamento a stranieri (la mia esperienza era relativamente positiva, il problema era il costo della vita a Milano e l'Asburgico che era incredulo davanti alla realtà lavorativa terrificante dell'Italia. Giustamente.) All'estero ci sto abbastanza bene - altrimenti direi che sarei già tornata. Anche se l'ammore per l'Asburgico, effettivamente, mi lega le mani: lui, dice, in quel paese di sciroccati ci vuole andare solo in vacanza ogni tanto. E come dargli torto, gli stranieri che vivono in Italia devono avere forte motivazione. Non ce l'ho io, al momento, figuriamoci lui. 

Poi magari elaboro meglio e scrivo un post come quello di Smila, però ho deciso che chiederò ad alcuni bloggher (o anche non bloggher. Anche chi non ha un blog, perché no) che conosco di scrivere un ghéstpost come questo per me, perché mi piace che ci sia uno scambio di opinioni qui che dia più spazio di un commento.

Lettori abituali con zainetto, sapete chi siete (Niki, Manoel, Cecilia, Mariantonietta, Vale VK?) e vi va di raccontarmi un po'? O anche lettori che non conosco o che non commentano: mi raccontate? 
In questi giorni il tempo è strano, ha fatto 35/36C fino a qualche giorno fa, poi è crollata la temperatura perché da qualche giorno c'è un clima monsonico. Ieri mi sono beccata un'acquazzone meraviglioso, perché c'era il sole e si vedevano tutte le gocciolone in controluce. Durante quest'acquazzone, ho anche visto l'arcobaleno più grosso che ho visto da che vivo qui. Grazie a K e P per le foto dalla terrazza di lei e da Karlsplatz lui: 




 Bello, no?
Lo sapete, no, che ho il Kindle. Da sei mesi e un po'.
Ho deciso che - e no, non mi paga Amazon - ora vi dico perché mi piace così tanto. In modo chiaro e schematico, come le persone serie.

Premessa: mi piacciono anche molto i libri di carta. Anche di più del Kindle. Ma sono una donna pragmatica, e il Chindolo, pratico è. 

1) E' comodo per leggere le notizie. Non serve essere smanettoni, e usando questo programma si possono creare giornali in versione kindle gratis. Io sul computer non riesco a leggere, e questa è non una buona ma un'ottima alternativa.

2) E' ottimo per leggere quando mangi in pausa pranzo. Così usi le mani per mangiare e occasionalmente schiacci un bottone. O la mattina quando fai colazione e sei scoordinata, come me. 

3) E' un'esperienza di lettura molto immersiva. Se leggi per ore su un kindle il libro non ti pesa, non ti si chiude mentre leggi, usi una mano sola e ti muovi pochissimo. Per me favorisce la trance da libro.

4) Se hai una carta di credito italiana puoi avere libri in italiano senza pagare un rene di spedizione, e averli subito. Ora. Un secondo fa!

5) Non pesa. Puoi portarti la rassegna stampa in borsa anche se sei insegnante frilèns come me e hai già 4-5 libri A4 e le casse nello zaino. 

6) Se stai per andare in vacanza non devi decidere cosa portare. Porti l'aggeggio e decidi come ti gira (questo avrebbe salvato la mia unica vacanza in barca a vela, rovinata da gente noiosa e libri pessimi. Sarà stata pure gratis ma che palle, volevo fuggire a nuoto verso le coste corse.)

Ecco. Questo è. Non dico altro - secondo me vale i soldi che ho speso, e come dico sempre, insieme all'iPod per una che è sempre in giro con pesi sulle spalle cambia la vita. E non devo più decidere tra Calvino e Ngozi Adichie, o tra De André e i Clash.
...che sei giunto qui scrivendo "ci vediamo in un'altra vita": spero che tu stia meglio. Che vada tutto bene.

Se no mi intristisco. Guarda che ti mando dai magiari, eh???
http://www.flickr.com/photos/gemmadipoppa/3949643261/
Il sorridente gnappetto che vedete qui a fianco non c'entra niente, con Budapest. Sappiatelo. E' che ho fatto uno dei miei esperimenti sociali utilissimi e rigorosi, e mi sono detta: ma cosa succede se io gùgolo il concetto di affabile, e le varie parole che ne derivano? 
Lo gnappetto (titolo della foto "Affabile rubacuori habanero") è, come intuite dal titolo, dell'Avana. Bello lui. Mezzo gnudo, che se la ride, nonostante magari non possa andare a scuola, non perde il sorriso. Proprio come i vicini magiari.
O anche no.
Perché no, loro sono buval baszott, lo erano a gennaio, e buval baszott rimangono. Nonostante il sole e il cielo estivo, loro, sono adombrati. Un po' perche hanno le pezze al culo e chi non si adombra quando fa fatica a far quadrare i conti - e lungi da me sfotterli per questo. Un po' perché... Beh, sono così. 
Sò mitteleuropei, cioè sono intrisi di questo amaro, amarissimo pessimismo esistenziale, che permea questa parte d'Europa. 
Ma anche su fino alla Scandinavia. 
Cioè, ne sfuggono solo quei sudici che fan sempre la festa, non lavorano mai e hanno come hobby far saltare la moneta comune, perché sono dei fannulloni immorali (sì, voi, italiani, spagnoli, greci, portoghesi. Voi. E anche gli irlandesi, perché sono cattolici.)
Ma torniamo ai solarissimi magiari.

Interno autobus, giorno.
La vostra prode, non ancora del tutto sana dallo star male ma convinta da P. ad andarlo a trovare comunque (sìsì Natalia vieni, ti prometto che passeremo tutto il uichend così, niente cose che ti sforzano), è sul bus, che aspetta di partire da una delle zone più grigie e deprimenti della città, quella dietro il Prater.

A sette minuti dalla partenza, nutro una certa speranza di avere il sedile di fianco a me libero. Così da stendermi, dormire e continuare nella convalescenza.
Leggo, ostento indifferenza e lascio che la gente continui a salire, finché pare non ci sia più nessuno.

Invece no.
A un certo punto, mi sento osservata. Alzo gli occhi dal mio libro, mi giro verso il corridoio e noto una tizia che mi sta fissando da svariati secondi, con gli occhi azzurri sgranati e la faccia inespressiva.
Questo era il suo modo di chiedermi il posto di fianco, e sposta quel maledetto zainetto.
Niente, mi fissa, io col sorrisone scemo le dico, si vuole sedere?
Ecco la risposta:



Ecco, appunto. Niente. Un kadzo, proprio. Io penso, ammazza, comincia bene sta gita, e le faccio posto. 
Descrizione del soggetto: grandi occhi azzurri truccati d'azzurro. Cofana biondo scuro con la permanente che neanche mia madre nel 1986. Tenuta da ufficio secondo i magiari: pantalone nero elasticizzato ascellare, corredato di cinturone nero e camicetta, naturalmente elasticizzata anch'essa color fucsia antinebbia. Orecchini a cerchio enormi alle orecchie. La mole: tipo la famosa cantante Adele, come genere. Fate voi. Io non è che sia Twiggy, quindi a livello deculo stavamo strettine - di spalle ingombrava lei sola, per fortuna. 

Si siede, manca solo che mi sputa in un occhio, e comincia a parlare al telefono in inglese magiaro, tentando di convincere il malcapitato all'altro lato della cornetta a vedersi lunedì per pranzo. Lui declina e lei per vendetta gli tira una pippa di minuti 20-25, tutti strillati nel mio orecchio destro, su quella stronza di Eva la capa austriaca, seguita da una lista di Perché Eva E' Una Stronza. Io volevo morì. Finalmente si zittisce e io leggo e dormicchio.

Mentre dormicchio con le cuffiette spente per attutire il rumore, sento qualcosa in sottofondo. Levo una cuffietta, apro un occhio e vedo lei che ascolta il disco dell'estate magiaro e canta felice (per i suoi canoni) di fianco a me. Io la guardo, sorrido, e lei di nuovo mi gela con una faccia che dice: cazzoguardi???
E io che pensavo fosse felice. Cantava, che diavolo.

Alla pausa in autostrada le ho chiesto di scendere che dovevo fare pipì. Ha sbuffato, ha quasi demolito il bracciolo che non si voleva alzare, e mi ha aspettato tutta la sosta giù dal bus, con aria accigliata. Ho fatto pipì velocissima, che se ti tira una manata, una così ti stende. 

P. dice che sono difficili i magiari. Eh. Infatti. Ho due studenti magiari al momento qui, carini, perdìo, ma un pochino negativi.
Tipo che da questo lato della frontiera sembriamo dei raggi di sole, a confronto.
Ciononostante, Budapest continua a piacermi. Mi porta fortuna.
Bolivia salt desert after the rain by Guy Nesher
Perché, mi fa notare giustamente l'Asburgico - non c'è mica solo l'Asia, non c'è mica solo il Levante.
C'è anche il Sudamerica. Che è phigo.
Ci sono anche voli (con Singapore Airlines, pensa te) in quella direzione per soli 500€ circa. Che per andare giù di là, non è mica poco.

No, per dire.
Lo sapete, no, che Vienna è una città multiculturale? Il 40% della popolazione è nato fuori dall'Austria. Che è tanto, e si nota, perché quando si prendono i mezzi si sentono un sacco di lingue diverse, da quelle limitrofe (ungherese, slovacco e ceko, tanto tanto serbo-croato, polacco) a quelle più lontane (turco, persiano, poco cinese, tanti dialetti indiani), più quelle che ti fanno venire la faccia a punto interrogativo (l'Asburgico mi informa che questi sono di solito ceceni e georgiani.) 

Bene.
Non vi ho ancora detto niente, ma da tre settimane ho un nuovo gruppo di studenti la mattina.  Quattordici persone. Composizione: nove austriaci, due turchi, un serbo, una bosniaca, una romena. 

Nell'ala destra della classe ci sono due austriache e la romena. Una delle due austriache ha grossi problemi di concentrazione, che tu gli parli in inglese o tedesco non cambia: non capisce una mazza. E quindi anche tu, Natalia, che sei buona e positiva, ti trovi a pensare forse ho capito perché non hai un lavoro. L'altra austriaca, invece, è una mia coetanea: sposata, con due bambini, è una di quelle personcine adorabili che detengono Lo Scettro della Sapienza. Sapete, quelle persone che ritengono che il loro modo di fare le cose sia Quello Giusto, e che noialtri che non seguiamo la Retta Via siamo una manica di pirla. Già il fatto che io abbia vissuto in una terra d'infedeli (la Turchia), che ami viaggiare in paesi popolati di gente più colorata di lei (Asia) e che non abbia figli e non sia sposata mi mette in cattiva luce: mi salva solo il fatto che sono una brava insegnante.

Bene, oggi questo simpatico individuo fa la battuta: davanti all'immagine di una donna coi capelli velati dice, beh, sicuramente è all'ufficio di collocamento, HA HA HA, perché cos'altro fanno se non prendere sussidi questi, HA HA HA.
Io la osservo come un animale strano.
Il ragazzo turco dall'altro lato della classe reagisce dicendo abbrava, mettiti anche a fare la razzista adesso! E giù di saluto nazista per sfotterla.
Seguono quindici secondi di invettive in orrendo dialetto viennese.
Io li guardo, come se fosse una partita di tennis, poi li fermo e gli dico: uno e due, fate un'altra cosa del genere e vi butto fuori dal mio corso. Problemi vostri come lo spiegate, al collocamento: in classe mia non voglio gente rissosa. Se volessi queste scene, andrei a insegnare all'asilo. O al liceo, al limite.
Tagliano corto e smettono.
Nel frattempo, la signora bosniaca, A. (che è adorabile) era seduta, zitta, con l'aria traumatizzata e la pelle d'oca alle braccia che la vedevo pure io. 

A fine lezione la A. viene da me e mi fa: grazie che li hai fermati. Io me ne sono dovuta andare dalla Bosnia, per colpa di persone come loro, grazie. La A. è musulmana, è sposata con un cattolico, e entrambi sono dovuti scappare negli anni '90 per evitare di finire male. In una fossa comune, per esempio.

Io sono ottimista, di solito, ma come ho già scritto altre volte, certe volte quando sento cosa le persone dicono - e io con la gente parlo tanto, col lavoro che faccio - perdo la fiducia, davvero. Ma la gente non li legge, i libri di storia? Non lo sanno cosa significa la parola escalation?

Checcazzo. Se sono io fuori dal tempo a non pensare in questo modo, fatto di assoluti e bianco e nero e pregiudizi e sparate non meditate, allora viva l'anacronismo. 
Nel senso che oggi mi sono svegliata col broncospasmo. Pensavo fosse perché avevo dormito male, che mi sentivo così esausta, ma forse ho dormito male perché ho il broncospasmo.

Sono andata comunque al lavoro perché si sa, i D.C.* vanno in crisi se li chiami e gli dici, sono moribonda, trovate un altro per la mia classe. Sono andata. Mi sono beccata sguardi assassini dalla coordinatrice perché sono l'ennesima insegnante malata. Dopo 45 minuti mentre mi accasciavo sulla seggia come un tossico su una panchina al parco Sempione, una collega volenterosa è ricorsa all'autogestione - come sempre - mandandomi a casa, dando un video ai suoi studenti avanzati e prendendo i miei studenti (loro adorabili si preoccupavano per me, al contrario della capa.) Viva l'autogestione, salva sempre nelle emergenze!

E poi sono andata dalla medica**. La mia era in vacanza, quindi sono andata da un'altra, che ci mette quarantacinque (45) minuti a paziente, ma che dopo l'attesa si rivela adorabile. Tanto per cominciare, è un po' la nonnina di tutti noi - dev'essere quasi pensionata, ma sembra più anziana dei suoi anni e ha una testa di vaporosi riccioli biondo cenere. Ha gli occhiali con la catenella, come mia madre e come mia nonna, e mi ha accolto con un sorrisone dicendo: lei parla un po' di tedesco, signorina? Tutta pronta a esercitarsi con l'inglese. Io, spavalda, le ho detto, becchiaro, abito qui da tre anni, eh - e intanto accarezzavo il dizionario italiano-tedesco che ho sempre con me quando vado da un medico.
Insomma, mi ha ascoltato, mi ha lasciato parlare, mi ha auscultato petto toccato linfonodi misurato pressione, tutto l'ambaradan, e poi mi ha detto: figlia mia, secondo me c'hai un virus. Il tuo Aufgabe (compito) per i prossimi due giorni, magari anche due e mezzo, è dormire. E ora te lo scrivo su un foglio così i Diversamente Competenti non ti rompono le scatole. Ah, sei frilèns senza malattia? Te lo scrivo comunque. Carta canta. (Il quale è un concetto che mi fa sentire a casa, in qualche maniera.)

Ecco. Sono malata, e nessuno mi ama più perché tutti i miei Arguti Seguaci sono in sciopero. Chi nella giungla colombiana tra un trasloco e l'altro (la Niki), chi a elaborare il lutto della fine della Slovenia e del ritorno nella caldazza iberica, mentre fissa mucche minacciose (la Cecilia), nessuno mi ama. Per non parlare di Manoel, perso nell'estasi del cammino di Santiago motorizzato.

Che vita difficile.
In effetti non è che scrivo molto, ultimamente. E' che sono psicologicamente morta, perché ho ricominciato con trenta ore d'insegnamento a settimana.

Ora seguo i consigli della medica e vado a dormire. Faccio i compiti, quindi.
Prometto che quando tornerò da Budapest (se ci andrò, ma la Medica-Nonnina era ottimista e mi ha detto non si preoccupi troppo per la sua gita) sarò di nuovo una donna interessante. Mica una che scrive solo di cibo, diamine.

*Diversamente Competenti
**eventuali studenti di italiano, "medica" non è corretto. Si dice medico, in italiano, ma io dico medica perché sono malata e posso fare ciò che voglio. 
Premessa: non sono vegana, e neanche vegetariana. Ma mi stanno simpatici gli animali, e cerco di controllare i miei istinti assassini, ad esempio davanti a un salame, di solito ci riesco piuttosto bene. Con i frutti di mare e il pesce, invece, faccio molta più fatica. Però ci tento. L'Asburgico vegetariano è, e quindi quando viaggiamo mangiamo (o ci affamiamo) di conseguenza - la Spagna è uno dei paesi più difficili. Ancora più difficili di posti che non sospettereste, come la Lettonia o la Repubblica Ceca. 

Questo è per dirvi: se state per recarvi in gita a BCN e siete avidi mangiatori, che so, di chorizo e compagnia bella, questo post non fa per voi.

Oltre che pattinare e parlare coi vecchietti e visitare la ridente cittadina di Girona, dunque, nella mia gita catalana mi sono strafogata come una disperata.
Questo è perché a BCN la situazione vegetariano/vegano-frèndli è molto più agevole che non in posti come Siviglia o Granada, nel sud. 

Il primo posto da citare è il CatBar, nella Ribera, un'istituzione del mondo vegano barcelloneta, pare. Minuscolo, fa soprattutto fast food malsano, ma i menù del giorno costano 10€ e hanno cose un po' più sane. Vende anche birre "indipendenti" dal mondo, e il décor è molto carino, se ti piace il genere un po' vegan-punk. E' pieno di poster militanti e decorazioni rissose, quindi se queste cose vi danno sui nervi, lasciate stare. Potrete cibarvi in altri posti altrettanto carini, ma meno riottosi. Non ho fatto in tempo a mangiare una torta, ma le torte nell'espositore avevano proprio una bella faccia. Se voi ce la fate, fatemi sapere come sono.
escudellers per flickr.com
Il mio posto preferito, invece, era un altro, infatti ci ho mangiato più di una volta: si chiama Juicy Jones, nel Raval. 
L'atmosfera qui è molto più bonaria, colorata, fricchettona e psichedelica. Il cibo è anche, secondo me, molto più sano, e il servizio è simpatico. Quando è pieno diventa lentissimo, sappiatelo, ma vale la pena aspettare, e le cameriere sono carine e si sforzano di fare del loro meglio - a noi hanno anche regalato un succo di kiwi gigante, per scusarsi. Anche qui hanno la formula del menù, buonissimo, a un prezzo strepitoso, cioè solo 8,50€: se ci andate una sera in settimana, questo include anche il vino, se lo volete. Gli ingredienti sono buoni, e si vede, insomma, a me è piaciuto proprio tanto. 

Un altro posto buono, più che altro per uno snack, è Gopal, anche questo vegano, nel Barrio Gotico, in una piazza intitolata a George Orwell. Ho mangiato qui un panino buonissimo con seitan e crema di avocado - se non fossi già stata piena ne avrei ordinato un secondo. Qui sono un incrocio tra Juicy Jones e Catbar, cioè sono un po' più bellicosamente vegani che da Juicy Jones, ma hanno anche un sacco di cose più morbide riguardanti il tai chi e lo yoga, quindi sono meno irritanti per chi vegano non è, forse. E' sempre molto affollato, ma nonostante ciò le persone sono gentili, e il locale è minuscolo ma carino. Avevano dei muffin al cioccolato nero che mi sorridevano dall'espositore, ma anche in questo caso, ero piena e ahimè non li ho mangiati. Fatelo voi per me, perdinci! Ah, e se siete a BCN per tanto, siete vegani/vegetariani e volete mangiare in casa, qui potete comprare un sacco di cose buone anche da portar via e cucinare a casa vostra, o dovunque state. E' pratico, saperlo prima. 
http://www.bcnrestaurantes.com/
Poi c'è Betawi, che è un ristorante indonesiano dove ci hanno portato due conoscenze locali, che non è (finalmente, direte voi) né vegano né vegetariano. Infatti io subito mi sono mangiata il riso saltato coi frutti di mare. Molto buono, mi hanno detto gli altri commensali, è il tè freddo all'ibisco, che per me è troppo dolce. Il servizio è rapido e gentile, e anche se è pieno, non vi scacciano o cose simili. Proprio carino. Si trova a due passi dalla cattedrale, è più caro degli altri che ho menzionato ma abbordabile, ed è colorato senza essere tamarro-esotico. 
Un altro posto che mi è piaciuto è Govinda, in una piazzetta nascosta, vicino al negozio Decathlon della città vecchia, se volete chiedere o guardare l'indirizzo, è la stessa piazza. In teoria sarebbe un posto di hare krishna, ma rispetto all'omonimo milanese è molto più "normale", sia come personale che come pubblico. Anche qui hanno i mitici menù del giorno, con 10€ circa vi danno ben quattro portate. Il menù spesso pare non sia di cucina indiana, il giorno che vi ho mangiato io era soprattutto mediterraneo. I loro brownie sono una roba libidinosa, ve lo dico. Il servizio è molto gentile e cortese, c'è una signora con un magnifico accento brasiliano, e il posto è molto tranquillo. L'ho trovato buono e quest'atmosfera è molto rilassante, nel casino del centro - la musica è bassissima. 
L'ultima cosa che vi consiglio, è un posto dove potete andare per il dolce, come ho fatto io, ma anche per mangiare altre cose, purtroppo sempre piuttosto di fast food. Questo adorabile posto è una delle due Vegan Bakery, in una strada dal nome assurdo chiamata Tantarantana, nel quartiere del Born. La loro pagina Facebook offre molte più informazioni del sito, se ve ne servono. Fanno dolci americani soprattutto, quindi brownies, cupcakes, e compagnia bella (buonissimi, densissimi e cioccolatosissimi). Il décor anche qui è caruccio, colorato e piuttosto eccentrico, dato che ci sono lampadari sbrilluccicosi e putti dorati qua e là - putroppo a me piacciono i mattoni a vista, e mi faccio conquistare da quelli. Fanno anche un ottimo caffè, quello dell'amico Riccardo Illy, e naturalmente se volete un cappuccino niente latte, ma potete scegliere tra latte di riso e latte di soia. Potete anche sedervi fuori, nelle belle giornate, e guardare il viavai di gente. 

Hmm. Direi che è tutto. Buona mangiata, gente, salutatemi la città!
http://melomeals.blogspot.co.at/
E' facile da fare - se no non sarei qui a scriverne. L'ha mangiata la mia amica colombiana onoraria in un ristorante giapponese ieri, e me l'ha fatta provare: bona. Bona bona, adatta ai 30C che c'erano ieri. 
Allora ho comprato gli ingredienti per copiarla, tranne i semi di sesamo che non so come diavolo trovarli, che ho sostituito con un po' di tahina, e ho aumentato i pomodori perché, perché no, ecco, a me piacciono. Poi ci ho aggiunto anche un po' d'insalata verde mista, che non fa mai male, e ho comprato un po' di pane integrale (poco) da mangiarci insieme.
Che dire, è bona, come ho già detto. Secondo me se ci aggiungete anche del farro ci sta bene, e levate il pane. La preparate in tre secondi e fa phigo con gli amici radicalsìc. 

La temperatura è crollata a 13C in ventiquattr'ore, e io avevo le cose per fare l'insalata e zero voglia di insalata ma di una zuppa calda, e l'ho fatta per ideologia, che è il 9 giugno. Che tristezza. 
decathlon.it
Ma anche donna sui rollerblade. O donna sulla longboard. Anche perché giacché sono spatentata, quelle e le biciclette sono le uniche ruote su cui sono autorizzata ad andare (ah, anche sui monopattini.)

Una delle cose che ho fatto a Barcellona è stato passare un sacco di tempo sulle ruote. Il mio adorabile cuginetto (che poi cuginetto una sega, ormai è laureato) mi ha regalato i pattini che vedete qui a lato, quando è venuto a trovarmi a Vienna. E' stato un regalo bellissimo, perché quando ero decenne, quindi a inizio anni '90, i roller erano un sacco di moda. Ma dato che costavano anche otto milioni di euro, i miei genitori non me li hanno mai comprati, e dunque eccomi qui, come una sfigata, a imparare alla soglia dei 30 anni.
Non pensavo di essere in grado, mi considero troppo imbranata per imparare a fare cose col mio corpo (yoga a parte.) A questa dichiarazione, l'Asburgico, che è un uomo del rinascimento che spazia tra la matematica, la letteratura, la lingua cinese, l'informatica e le longboard, mi ha detto con aria germanica: questo, Natalia, è nonsense. Non dire cacate. Se non provi non impari.
In effetti. 
Allora, io ho provato. 

Il bilancio dei miei tentativi catalani è questo: sono caduta una sola volta in 3 giorni di tentativi, per una volta sono contenta di essere dotata di un certo baule sul didietro (attutisce le cadute), le persone sono molto supportive, non ti deridono ghignando come pensavo io, che sono paranoica. Un vecchietto in bermuda mi ha detto "continua a provare, ce la farai" e oggi a Vienna un vecchietto in stampelle mi ha detto "l'inizio è sempre la parte più dura, ma poi si impara tutto!"
Io piaccio, ai vecchietti, evidentemente. Gli ispiro tenerezza. Sarà perché vedono che non so frenare.

http://www.lushlongboards.com/
Poi appunto dovendo trovare una longboard (una specie di skateboard gigante per coloro che non lo sanno, con le ruote più grandi, che permette di andare rapidi ed è un ottimo mezzo di trasporto) in affitto per M, siamo andati in un negozio specializzato. E ho incontrato lì una tavola che mi ha fatto venire un'improvvisa voglia di imparare ad andare su quelle, ancora più che sui pattini: quella che vedete qui a fianco. L'artista è Pete Fowler, una vecchia conoscenza dei miei tempi britannici, credo lui sia gallese, e ha disegnato questa tavola che è figherrima. Se non fosse che ho l'equilibrio di una scimmia drogata, me la comprerei, imparerei e la userei per andare al lavoro. Sarebbe geniale, usarla per andare dalla metro ai vari luoghi dove devo recarmi, cosa che con i pattini non è possibile, perché si perde troppo tempo a cambiarsi. Mi darebbe anche un sacco di punti con gli studenti più giovani, secondo me, entrare in classe con una roba del genere. Non è bellerrima?
Quindi oggi ho anche tentato di usare una delle longboard di M, quando siamo andati al parco (non ha funzionato benissimo, mi sa che prima perfeziono i pattini, e dopo quello. I movimenti sono diversi e io troppo impedita per imparare due cose insieme.)

Ecco, questa cosa del provare le cose su ruote per me - nonché l'andare in palestra o fare movimento regolarmente - è totalmente nuova, perché vengo da una famiglia di gente totalmente pigra. La bicicletta me la sono comprata io di nascosto, tardoadolescente, in compenso la macchina era molto amata. 
Ogni tanto mi chiedo se magari sarei meno imbranata, se fossi cresciuta in una famiglia un po' più attiva - la prima cosa che i miei mi dicevano, sempre, era "vedi di non farti male", o "stai attenta." La mia famiglia è fighissima e geniale in tutte le altre cose, ma in questo secondo me sono stati troppo cauti - mi sto liberando della paranoia del "farmi male" praticamente solo ora (e il mio cervello mentre sono sui pattini me lo ripete come mantra, nonfartimale nonfartimale, che poi è il modo in cui ti fai male, perché ti concentri sul non farti male, e non sul pattinare o su quel che stai facendo.)

Ecco, insomma. Una delle cose che sto tentando di fare, ora che sono grande, è smettere di essere una donna imbranata. Pensatemi!
Lo so, ora vado alla festa.
Però dentro di me sono tutta gioiosa perché il uichènd prossimo è tempo di cousinade. E condividiamo la gioia, mica solo le menate, no?
E da quando abito a Vienna, cousinade significa andare qui:


http://www.123rf.com/


Budapest, arrivo presto! Non vedo l'ora. Budapest vuol dire: chiacchierate e sociosoap latine fuori contesto con P, pomeriggi alle terme a rallegrare gli ungheresi intristiti con le nostre cojonate supreme (tipo P che mi trasporta sulle spalle gridando uiiiiiiiii), vino, crepe gundel carbonizzate e molto molto altro.

Mi sono anche resa conto che alla fine, dell'ultima gita, che è stata molto piacevole e interessante e con solo uno sprazzo di neve alle due di notte circondato dal sole, non ho scritto più un kadzo.

Che deficiente. Lo dico sempre che sono troppo stordita per avere un blog. Avrò almeno ventisette post in bozza.
Ora vado. Giuro. Sono pronta, sì. 
è dove sto andando ora. E' il secondo anno che viene organizzata intorno a inizio giugno. I poveri si illudono di vivere in un luogo dove esiste anche il concetto di estate, e ogni anno vengono smentiti, dato che la festa - en plein air - si svolge *sempre* puntualmente sotto un cielo che promette tempesta, con un vento che ti porta via brownie e affini da sotto il naso. A causa di ciò, chiaramente, ho voglia di andarci, ma allo stesso tempo anche no, perché (losolososonoripetitivamaancheiltempoloè) ho freddo.

Quindi stasera il mio abbigliamento da festa è una cosa di questo genere: 

http://www.steamfantasy.it/
In questi giorni mi sto rendendo conto di come e perché la mia femminilità, da che abito qui, è andata a farsi un giro ai Caraibi e non è mai più tornata.
Io sono freddolosa.
Se ho freddo, mi vesto come un alpino, o un palombaro, appunto. Anche da adolescente, mai stata di quelle lì mezze gnude che si aggiravano pel mondo con i reni di fuori. No. Io mi copro.
E quindi ecco - non sono femminile per niente. Non metto le ballerine perché ho freddo ai piedi, e insomma sì. Tacchi niente, che devo sempre camminare duecento chilometri. Ora sto uscendo con gli stivaletti soliti e la mia fedele giacca antipioggia, e il mio fedele basco viola. Per una festa all'aperto. In giugno.
Eh.
Mi sa che il fedora color pesca lo parcheggio in attesa di tempi migliori - che con gli sbalzi propri di questa città potrebbero anche essere dopodomani, con 15C in più da un giorno all'altro. Speriamo. 

Fatemi prendere anche una pashmina, già che ci sono. 
Sigh. 
Anche ritorno al passato, direi, magari a un pomeriggio di inizio marzo (direi fine febbraio, se fosse Milano.)
Di ritorno da Barcellona, ieri notte, arrivo io fresca fresca in infradito e pantaloni di cotone, con in testa un fedora color pesca, mica per fare la cretina dal volo dalla Spagna, più che altro per non spiaccicarlo senza pietà.
Vienna mi accoglie simpaticamente con 11 gradi, la notte tra il 4 e il 5 giugno. Con un vento che Trieste e la bora gli fanno una pippa. Stamattina sono uscita con la giaccia, la felpa, il basco viola di lana, degli stivaletti alla caviglia e una carogna appollaiata sullo zaino, perché non è possibile un tempo così ingrato a giugno, cristodiundiosanto.
Ho dormito dieci ore in tre giorni, oggi ne ho insegnate sei (ho un gruppo nuovo la mattina, adorabili, quando mi passa il momento omicida vi racconto tutto), ora ho un sonno della madonna e fatico a convincermi a uscire di nuovo per andare a yoga. Perché ho freddo, e sonno, e fame, e avrei voluto restare in piazza Tetuan col carlino, nella casa dai coinquilini fluttuanti (vi racconto anche questo.)
E invece no. Sono di nuovo nell'impietosa mitteleuropa, e ho freddo, kadzo. Ma tanto. 

Giuro che mi passa presto. 

E' il trauma del ritorno, e non per il lavoro - per il clima. Per il gelo maledetto. Il lavoro mi tiene su, oggi, nel pomeriggio mi sono per l'ennesima volta ritrovata a dirmi che phigo che mi pagano per questo. Vorrei solo che gli spagnoli avessero più soldi, così magari mi potrebbero pagare loro, al sole. No?