Sono ad Hong Kong, sto in un palazzone di 15 piani e 5 edifici orrendi, così orrendo da essere su Wikipedia. Orrendo, ma interessante. Dopo vi spiego. Quello è il Chungking Mansions di cuo parlo nel titolo. 

Hong Kong è una città di contrasti, lo avrete di certo sentito. Ci sono grattacieli illuminati tutta la notte, colline verdi, traghetti da usare come mezzo di trasporto. Nello stesso giorno puoi fare camminate nella natura e poi camminare in una strada trafficatissima. 

Mi piace, Hong Kong, anche se il cibo era più divertente a Taipei: qui si sono completamente sbarazzati delle bancarelle. Ottimo, voler essere igienici... Ma si sono concentrati così tanto solo sulla carne, che un sacco di buone cose diverse da un dumpling di maiale sono spariti. Quello che mangi è buono, gustoso, ma raramente eccezionale, cosa che venendo da Taiwan ti sprofonda in un abisso di tristezza.

(Perché a Taiwan tanta roba è eccezionale. Ci hanno i mercati serali, a Taiwan, dove trovi di tutto, dagli spiedini di fegatini di animali ignoti, ai cuori, agli spaghetti cinesi freddi con salsa di noccioline, zucchine e carote, come i soba giapponesi, per quelli di voi che sono aiutati da una descrizione del genere. Ma di Taiwan devo scrivere bene, e altrove. Sono stata bene assai, a Taiwan, io.)

Hong Kong mi è piaciuta, ma non mi ha stregato o esaltato come altre città viste in questo viaggio, o altre città asiatiche. È un poco stressante, trovo, la gente meno gentile che altrove. E non è perché è grande, perché lo sono anche LA e Buenos Aires, o Città del Messico: è che sono cantonesi (sono celebri per essere i rozzi del mondo cinese, a quanto ne ho capito), e sono tutti di corsa. Non hanno tempo per sorridere o dire grazie prego. E io arrivavo da Taiwan, dove la gente era davvero tanto cortese e sorridente. 
Devo ammettere che Messico e Taiwan mi hanno viziato, quanto a gentilezza degli estranei. Del Vietnam ho sentito peste e corna, vediamo come va, ma avevo sentito orrori vari del Perù, e io lì ci sono stata bene, ecco. 

Altra cosa che mi è piaciuta e non piaciuta insieme: il centro mi sembrava familiare. E non capivo perché, no? Perché è così diverso dall'Europa. Poi mi sono resa conto di cos'era: c'erano stilisti ovunque. Sembrava il centro di Milano degenerato degli ultimi 15 anni, Armani ha un centro commerciale gigante, ovunque ci sono negozi del lusso italiano, e non solo: Prada, Valentino, Ferragamo, Bulgari, Dolce&Gabbana, Vuitton, Yves Saint Laurent, Vivienne Westwood e Marc Jacobs; tutti, c'erano tutti. Io sono schizofrenica, con la moda: amo la creatività degli stilisti, detesto come l'industria abbia fagocitato la mia città, rendendo Milano una città a una dimensione. Ma non andiamo fuori tema. (Dicono però che lo stesso sia successo anche a Hong Kong, che di vocazione era una città portuale, come Amburgo o Rotterdam, ed è cambiata negli ultimi venti, venticinque anni circa.)

Il palazzone dove sto scrivendo, in una stanza poco più grande del mio letto, dove devo ballare la lambada con l'Asburgico per fare alcunché, si chiama Chungking Mansions, appunto.
Ve lo dico perché merita na ricerca google, per vedere quanto è brutto, zozzo e caotico. Direte: e perché sei andata a stare in un posto del genere? Risposta: perché è l'unico posto abbordabile e centrale in tutta HK. Però, oltre che zozzo e con le macchie di sangue nella tromba delle scale (giuro. Mi sono autoconvinta che fosse vernice secca, ma quanta vernice si può versare? Ora posso ammettere con me stessa che era sangue, dato che sto per andarmene) è anche ultrainteressante

Entrare a Chungking Mansions è cambiare dimensione spaziale: fuori, sei nel mondo cinese. Ci sono i caratteri e non l'alfabeto latino, folla sulle strade, ma tutto sommato, nessuno ti molesta, nessuno ti rompe le scatole, gli uomini non ti fissano, tutti sembrano indaffarati. Entri nel palazzone, e sei in un posto dove vedi: 

*africani che dall'aspetto sembrano somali, nigeriani, nessuno con i boubou, ma decisamente non asiatici, in gruppi agli angoli dei corridoi.
*gente del subcontinente indiano: sikh del Punjab, col turbante colorato, la barba 
lunga e l'aria da uomo con le mani in pasta, cellulare all'orecchio e passo svelto; pakistani con carrelli di scatoloni di merce e il sorriso sornione quando siete in ascensore insieme; bengalesi di bianco vestiti, ma con le crocs ai piedi; giainisti barbuti dall'aria ascetica (qui una foto dal blog di Mijjinnan).



*cinesi con la sigaretta in bocca, canotta bianca, pantaloncini e ciabatte di gomma, che vendono telefoni, tablet e di tutto di più.
*ristoranti indiani normali, indiani vegani (giainisti), pakistani halal
*venditori di orologi falsi da tutta l'Asia
*gente del subcontinente che pubblicizza sarti. A me. Che sono in giro con gli straccetti, e all'Asburgico, che non ha gli straccetti ma credo di averlo visto in camicia penso tre volte in cinque anni. Ottimo pubblico, a cui proporre sarti.

E questo posto brulica. Madonna, se brulica. Un accademico, Gordon Mathews, ha calcolato che da questo complesso di palazzoni passano ogni anno 120 nazionalità diverse, ci vivono circa 4000 persone, e secondo Time Magazine intorno a 10000 persne al giorno arrivano lì per sta negli ostelli. Vi rendete conto di che posto assurdo è? Non sono esagerazioni, questi numeri. È semplicemente Hong Kong. Il mo ostello faceva schifo, ma è valsa la pena stare lì per vedere che isola assurda all'interno della città rappresenti Chungking Mansions.
Vi copio qui un link a un fotosaggio di uno studente di giornalismo di Hong Kong, che rende bene l'idea del luogo dove ho dormito per gli ultimi quattro giorni:


Buona visione. Posti come questo per me sono un caleidoscopio sul mondo.


È il numero di chilometri percorsi via terra, aria e mare da Ottobre 2012 ad oggi. Il numero esatto è merito di M che ha in mano la strumentazione di bordo, non merito mio, di certo.
Non c'è da stupirsi che una volta al mese il mio corpo vada in sciopero e mi obblighi a passare una giornata a letto a riposare e leggere libri!

Ho anche incontrato un sacco di gente, durante questa gita, che mi ha detto, sono stato in x numero di paesi. Io non sapevo mai cosa rispondere, perché non ho l'animo da collezionista, o da ragioniera. in generale non ho quasi mai i numeri precisi delle cose che faccio, so quanti libri leggo all'anno solo da quando ho strumenti digitali per tenere il conto.

Quindi, con l'aiuto di un sito fornito da M, che altrimenti io mi mettevo lì con carta e penna, ho contato in quanti paesi sono stata finora nella vita: 43. E questa è la mappa, con l'Asia destinata a crescere nei prossimi mesi. Raggiornerò l'immagine a fine viaggio, magari :)


(Mi scuso per i font sballati in questo post, ma fare tutto da una tabletta è un incubo. Fa schifo pure a me, ma guardate alla sostanza, che dirvi...)


Una cosa che posso già dire, pochi giorni dopo aver lasciato il mondo latinoamericano, è che ancor più della letteratura, quel che è rimasto con me è la musica, soprattutto quella argentina e uruguaya, alcune cose cilene, e alcune afro-peruviane (la musica brasiliana la conoscevo e apprezzavo già prima di partire.)

Mi piacciono la musica del Río de la Plata* come anche alcune cose cilene, perché non parlano solo di festa, rum e sesso, ma hanno anche un velo di malinconia, a volte di tristezza, che mi attira molto di più di una salsa, che mi sembra molto unidimensionale, anche se magari divertente. 
Quando sento il suono del bandoneón e un voce con l'accento rioplatense mi si smuove qualcosa dentro, che ci posso fare. (Qui sotto la voce di Julio Cortazar, lo scrittore, Buenas Noches, Che Bandoneon, con un bandoneon di sfondo, appunto. Che voce, chissà se c'è un suo libro intero registrato da lui stesso!)



Non è che non mi piaccia la musica allegra, ma mi sembra che la musica come il tango o il candombe, o la bossa nova, o le canzoni di Victor Jara o Violeta Parra (Cile) racchiudano in sé più accuratamente l'esperienza umana, che non è tutta rose e fiori, e riescano a parlare in maniera poetica anche delle cose brutte.

Scrivo tutto ciò perché detesto lo stereotipo per cui Latinoamerica significhi solo casino, rum, festa e belle fighe. Il Sudamerica è molto, ma molto di più di questo, specialmente nella sua parte australe, quella che amo di più, come ho già detto varie volte. Leggetevi Luis Sepúlveda, Patagonia Express o Il Mondo alla Fine del Mondo, per esempio, o qualcosa di Mario Benedetti (Uruguay) così mi capirete. Per me ha significato molto altro che la festa, l'alcol e la gnocca, il Sudamerica.

Di sicuro ai sudamericani piace far festa, ma quel che mi è piaciuto dei paesi del Cono Sur è che tra una festa e l'altra riflettono sulle cose, ivi inclusi i problemi dei loro paesi, con sentimento critico, cosa vista pochino tra Bolivia e Colombia. 
I messicani, almeno nella capitale, ad Oaxaca e in Chiapas, sono più riflessivi, e come uruguayani, argentini e cileni parlano anche delle cose negative dei loro paesi, invece che idolatrare i loro presidenti, sventolare bandiere tutto il giorno, e scrivere graffiti pro-governativi. Fine della divagazione sociologica, torno alla musica.

Sono una donna da saudade, insomma. Anche in turco hanno una parola simile a saudade, e infatti mi piace anche la loro, di musica.
Vi lascio con Una Iguana y Tres Monedas di La Chicana Tango, e Tango Negro di Juan Carlos Caceres, di Buenos Aires e Montevideo (credo), che sono esempi di musica rioplatense scoperta in queste due città. Una più malinconica, l'altra che vi fa ballare un poco. Vediamo che ne dite :)





*l'estuario su cui sorgono Buenos Aires, Montevideo e Colonia, tra i posti che meglio mi hanno fatto stare in nove mesi di Latinoamerica.
Or dunque, sono in Asia da meno di una settimana, in una parte di Asia nuova, quella culturalmente cinese, ma alcune cose mi hanno già fatto ricordare perché adoro venire da queste parti, nonostante qui, in particolare, io sia analfabeta e incapace di comunicare come lo ero in Sudamerica.

Il cibo è buonissimo, è scandalosamente gustoso. I cinesi amano la frittura, e ciononostante appesantisce solo relativamente, perché si tende a mangiare in piccole porzioni varie volte al giorno, almeno qui a Taiwan. 

Si può mangiare per strada, per pochi centesimi, e provare tante cose diverse, guardando la gente che passa, i gatti che saltano sui tetti, i motorini che passano rapidissimi , insomma, tutto un universo di cose che accadono per strada. La vita di strada è molto, molto animata. Nessuno ha una pistola, il che è un bel valore aggiunto.

Le persone sono miti, e sorridono. Tanto. A Taipei, se ti perdi, la cosa migliore da fare è fermarsi a un angolo, con l'aria da straniero sperduto e un po' idiota (cosa che a noi riesce benissimo, specie a me che non so neanche leggere): prima o poi, una persona del posto vi soccorrerà. 

Amo i templi. Non mi annoiano, potrei vederne a mille. Non mi stancano, perché al contrario di molte grandi (magnifiche) cattedrali europee, sono pieni di vita, i templi, di persone devote che pregano, e che posso osservare da un angolino. Un'altra cosa che mi piace, dei templi, è come le persone ci vadano in ciabatte o pantaloncini, informali, pregando qualche minuto, per poi continuare la propria giornata. È come se quei cinque minuti fossero i loro minuti di raccoglimento quotidiano, per calmare la mente, e rallentare il battito del cuore.

Un'altra cosa che mi piace, nei templi buddisti in particolare, sono le offerte floreali, combinazioni di boccioli squisite, profumate e colorate, che fanno profumare il tempio intero. Il buddismo che vedo qui, non che io sappia molto di buddismo, mi ricorda quello che ho visto nel sud-est asiatico, più rilassato e aperto, e meno severo del primo buddismo visto "da grande", cioè quello tibetano. In ogni caso, sarebbe bello capirne di più, di quello che vedo. Dovrei comprarmi Buddhism for Dummies, se esiste. 

La prima volta che ho visto un tempio buddista, era il 1994. Avevo dodici anni, non avevo mai visto qualcosa che non fosse una chiesa, e mi ricordo che mi ha sconvolto la psiche, in bene. Con la mia famiglia, avevamo un guida, che all'epoca ci spiegò varie cose sul tema. Da allora, ho un debole per i templi buddisti. Non sono credente, ma mi sento bene appena entro in un tempio. Questione di panza, totalmente irrazionale. Sarà che non c'è un prete e ognuno prega per i fatti suoi, con un'aria di pace addosso che mi piace molto. 

Taiwan ha un'aria tranquilla e rilassata, sto benissimo, qui. Tutto è facile, pulito, organizzato, in metrò si fa la fila per salire, non si spinge e si aspetta che la gente scenda... Una pacchia. In questo momento sono in treno, e devo constatare con commozione che nonostante sia pieno, questo treno è silenzioso. No, dico, silenzioso, con almeno 80 persone in questo vagone! Incredibile. Dopo la Latinoamerica e quei cazzo di telefoni con il reggaeton a manetta, vi commuovereste pure voi. 

E poi, dopo il parziale abbassamento della guardia in Messico, qui mi sono rilassata del tutto. Possiamo camminare a caso, senza nessuno che ci dica state attenti in questa parte della mappa, perché lì vi derubano o vi accoltellano o rapiscono o che so io. Qui, niente. Al massimo, la gente ti fissa con curiosità e ti chiede da dove vieni e come ti chiami, le uniche cose che sanno dire in inglese, e poi vanno avanti coi fatti loro. 

Riassumendo, il post sulla Latinoamerica vale ancora, perché sono contenta di esserci andata e di avere imparato quel milione di cose di cui ho parlato... Ma dopo meno di una settimana qui, mi sono già ricordata di perché M ed io siamo venuti in questo continente così tante volte. 
È lontano dalla mia cultura, e non capisco tante cose, eppure la mia pelle, ogni volta, quando vede una pagoda, un incenso acceso, una risaia verde su una collina, una piantagione di tè, un vecchietto che cucina su un carretto per strada - che sia un samosa in Nepal, un dumpling a Taiwan, o un'insalata di papaya in Laos - la mia  pellaccia sente come una specie di ritorno a casa. Totalmente irrazionale, come ho già detto.

Mio padre mi diceva che gli piaceva andare in Marocco perché aveva la stessa sensazione, quella di tornare in un posto al quale in qualche modo apparteneva, nonostante non fosse un fan dell'Islam, nonostante non parlasse arabo. 
Mi diceva che quando vedeva la medina, o il souk di Marrakech, o quando è andato ad Erfoud e ha visto le dune, come un mare di sabbia infuocato, lui si sentiva a casa, ed era una cosa che lo confondeva un po'. Scherzando, diceva che magari nella sua vita precedente aveva vissuto da quelle parti, e io all'epoca mi chiedevo se mi sarei mai sentita così  e se sì, dove. Per ora potrei dire Asia, anche se dire Asia non significa nulla, ma è la definizione che posso dare per ora. In nove mesi di Caraibi e Sudamerica, non ho mai avuto questa sensazione di "casa". Forse a Buenos Aires, forse sull'oceano, ma diversamente.

Penso tanto, a mio padre, in questa gita. Quest'anno saranno otto anni che è mancato, e anche se la cosa si fa più gestibile con gli anni, mi continua a mancare. Non so se penserebbe che sono una cialtrona a fare quello che sto facendo, invece che stare in Europa e lavorare.
Mi piace pensare che l'avrebbe vista come opera sua, dato che come ho già detto in questo blog, mi ha sempre incoraggiato a fare ciò che volevo, a patto che non fosse distruttivo, e non quello che gli altri si aspettavano da me. Boh. Penso molto a lui, penso che mi piacerebbe averla con lui, una conversazione sulla storia del Marocco per lui e dell'Asia per me. Ma non è possibile, quindi ne prendo nota qui. Meglio che avere il pensiero a fluttuarmi in testa costantemente, no?

Di solito non lo faccio, ma ho una domanda per i miei augusti lettori: avete un posto dove, inspiegabilmente, vi sentite come a casa? Senza alcuna connessione con esso, che sia connessione familiare, culturale o di alcun genere?